Il bel volto ambrato del giovane, piano piano con mani esperte cambia di colore. Prima coperto da una base intensa rosata, poi a seguire un crema bianca… E’ iniziato il trucco, lungo e accurato, eseguito con pigmenti naturali. E’ il Aharya, che insieme ai costumi è la parte esteriore e più visibile del Kathakali.
Il make-up è pesante, diventerà una maschera, che trasformerà dopo una lenta metamorfosi l’ attore in un “essere divino”, soprannaturale. I costumi che arrivano a pesare anche trenta chilogrammi, raccontano il carattere del personaggio, colori e accessori rappresentano il bene e il male. Il Kathakali ha più di 400 anni di storia e nasce nella “God’s own country, la patria di Dio”.
Il ricco stato del Kerala, nel sud dell’India, chiamato così per i suoi straordinari paesaggi, ma anche per le tante forme di spettacolo che qui sono nate. Non si può andare in questa parte del mondo e non assistere al Kathakali, si perderebbe l’anima del Kerala. Cosè il Kathakali? Una danza? Uno spettacolo teatrale? Una pantomima? Un racconto ballato? Il Kathakali è tutto questo. Il premio nobel indiano Tagore lo definì “teatro totale”.
L’attore non si esprime attraverso le parole, ma attraverso la gestualità e la mimica del volto. I futuri musicisti e truccatori frequentano scuole specializzate. Un faticoso ciclo di studi di 6 anni che diventano 8 per gli attori-danzatori, i quali durante l’apprendimento devono affrontare un allenamento quotidiano. Attraverso micro movimenti facciali, delle guance, delle sopracciglia, bocca, occhi e ciglia riusciranno ad esprimere gli otto Rasa, i sentimenti codificati della tradizione indiana.
Oltre l’espressività facciale acquisiscono un vero e proprio alfabeto gestuale delle mani, il Mudra, che sarà la loro “voce” silenziosa. E’ credenza comune che durante la rappresentazione, dei e demoni, eroi e spiriti, giungano sul palco da altre dimensioni. Si fondono con i protagonisti e narrano storie.
Attraverso l’espressività interiore, la Sattvika, l’alito vitale fondamentale nel teatro indiano, come dicono i maestri del katakhali è quel vento interiore che parte dall’ombelico e si espande in tutto il corpo. Un’energia che lega il respiro al movimento, al gesto, allo sguardo, alla mente e trasporta e travolge inesorabilmente chi ha scelto di sedersi ad assistere alla rappresentazione. Clelia Nocchi