Varanasi, possiamo chiamarla Benares, anche se è dal 1956 che nel processo di ridenominazione avviato dopo la fine dell’impero britannico, ha cambiato il suo nome. Molti indiani nostalgici però la chiamano ancora così. Che città è Varanasi? Perché andare a Varanasi? Da qualche parte ho letto che a Varanasi non si va per vedere monumenti, non ce ne sono, essa stessa però è un monumento.
Mi trovo d’accordo con questa affermazione, essa non è solo geograficamente in India, Varanasi è l’India. E’ la sua anima, il suo cuore, o la ami o la odi, non è posto da mezze misure questo. Essendo una delle sette città sacre dell’induismo e luogo di culto anche per il jainismo, giungono qui più di un milione di pellegrini ogni anno. E’ credenza comune che chiunque muoia nel territorio acceda direttamente al regno dei cieli, esentato dal ciclo della rinascite.
E’ necessario arrivare a Varanasi avendo avuto l’accortezza di informarsi sugli usi e costumi del paese. La conoscenza aiuterà la comprensione dei riti, vecchi di millenni, senza cadere nell’errore di compararli a quelli del proprio paese d’origine. La città è legata indissolubilmente con il fiume che l’attraversa, il Gange. La Dea Ganga viene venerata e adorata ogni giorno. La mattina con il rito del sole nascente e la sera con la cerimonia della Puja. La si omaggia di canti e danze, di fiori, di lumi. Il Gange non è solo un fiume che scorre è l’intera esistenza della gente che scorre intorno ad esso.
Si scendono i Ghat, le scalinate che fanno accedere alle acque, per lavare, per benedire i figli e gli sposi, per farsi il bagno, per lavarsi i denti, per farsi la barba. Ogni ghat e sono centinaia, ha un nome e una funzione. Bisogna camminare lentamente, a lungo e con rispetto se si vuole osservare la quotidianità della gente indiana. Fotografare è possibile ma è meglio farlo chiedendo il permesso o con un teleobbiettivo potente per non disturbare l’intimità delle attività.
Nel via vai lungo le rive del fiume il procedere a volte diventa “faticoso”. Si fanno incontri di ogni genere; dai venditori di collanine e bracciali, che ti seguono e ti si appiccicano addosso come mosche, a persone con impressionanti deformità. Cani malati segnati dalla rogna o da chissà cos’altro, eleganti e giovani coppie di novelli sposi che devotamente si recano al tempio con altrettanti eleganti invitati. Mendicanti, incantatori di serpenti e improvvisati astrologi e poi i Sadhus che qui a Varanasi arrivano numerosi. Singolari personaggi un po’ eremiti e un po’ santoni, i “già morti” li considerano gli indiani e per questo molto rispettati, alla loro morte fisica, verranno sepolti e non cremati.
Si notano anche volti di occidentali che seguono il loro esempio, una vita dedita alla solitudine e all’ elemosina, passata a mortificare il proprio corpo, alcuni con pratiche anche estreme, ma in generale attraverso l’hashish, una peculiarità del dio Shiva. Non è una passeggiata qualsiasi camminare qui, tutto ti meraviglia, molto ti ferisce, qualcosa ti sconvolge. Varanasi con i suoi colori forti, sporca, con i suoi odori quasi insopportabili, meravigliosa e raccapricciante è il libro della vita. Ogni pagina parla della condizione umana fino all’epilogo finale, la morte.
La morte te la trovi davanti, ai ghat della cremazione. Le pire ardono tutto il giorno, fumo, fuoco e i cadaveri che arrivano di continuo accompagnati dai famigliari maschi sono sistemati da uomini addetti sulle cataste già pronte. Il ricco viene posto su quella più grande con legni profumati perché ha pagato di più. Il povero su quella più scarna, per cui più lungo sarà il tempo di disfacimento della salma.
Certo, la differenza sociale è cosa che al quel punto tocca solo chi guarda. Il risultato sarà senza dubbio il medesimo. Ma la conoscenza del pianeta Varanasi non può dirsi esaurita senza “perdersi” tra i Galis, i vicoli oscuri della città vecchia, dove neanche il sole sembra avere coraggio di entrare. Non descriverò e lo faccio di proposito questa parte di visita.
Voglio lasciare a chi andrà, di “viverli” senza condizionamenti di valutazione. D’altronde l’India ti sorprende, sempre, quando si arriva all’aeroporto non si legge forse lo slogan ormai famoso con cui la si pubblicizza? “Incredible India” Clelia Nocchi