Karakorum – Mongolia

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Quando il francescano Giovanni da Pian del Carpine arrivò nella valle del fiume Orklon nella lontana Mongolia era l’agosto del 1246, cosa avranno visto i suoi occhi? Sarà stato sicuramente colpito dalle grandi tartarughe di granito simbolo di eternità collocate all’ingresso della città. Era giunto faticosamente nella capitale del grande impero di Genghis Khaan.

Il fraticello umbro era partito a cavallo da Lione e in tre mesi e mezzo aveva attraversato paesi “disseminati di ossami, rovine di castelli, di ville e guadati fiumi”, così esso stesso descrive la sua avventura nel famoso resoconto Historia Mongalorum. Spedito in quella terra da Papa Innocenzo IV preoccupato com’era da quell’esercito che stava seminando terrore in un’arrestabile sete di conquista.

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Doveva stringere alleanze, fra Giovanni, convertirli e capire quali fossero le loro intenzioni. Quella che oggi sarebbe stata una normale visita politica all’estero, a quel tempo era impresa titanica, che per altro non portò un esito soddisfacente.  Ma non fu il solo ambasciatore, qualche anno dopo toccò al fiammingo Guglielmo di Rubruc inviato questa volta dal re Luigi IX e anche lui raccontò il suo viaggio in un’opera “nell’impero dei Mongoli” datata 1255.

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I due trattati si sono rivelati una fonte preziosissima per la conoscenza di quella parte dell’Asia, illustrando ampiamente il punto di vista geografico, culturale e sociale, cancellando così le voci terrificanti che la descrivevano come terra abitati da mostri. Si vedono ancora le belle tartarughe a Karakorum per chi giunge nella leggendaria capitale, monumenti evocativi sopravvissuti alla furia della dinastia Ming. Destano ancora stupore e meraviglia le possenti mura perfettamente conservate che racchiudono in un abbraccio di pietra Erdene Zuu (i cento tesori).  La muraglia, risalente al 1586 con i suoi 108 Stupa e i 420 metri per lato circonda lo splendido gioiello.

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Nato come un’araba fenice dalle rovine della precedente città, la sua costruzione durò tre secoli ma al termine era un monastero magnifico, uno dei più belli al mondo. E’ il più antico monastero buddista del paese, inizialmente contava un centinaio di templi e circa 300 gher. Si respira un ‘aria di grandezza e spiritualità e viene naturale abbassare la voce durante la visita sovrastati dalla consapevolezza di calpestare il suolo di un luogo sacro e tormentato. E’ un privilegio poter assistere i monaci nei loro riti quotidiani. Di grande disponibilità ti accolgono sempre con un sorriso e ti raccontano del monastero, ti aprono la porta del loro mondo con umiltà.

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Fasciati nelle loro tuniche amaranto continuano a tramandare il loro credo anche se non sono più così numerosi come una volta.  Dei mille monasteri esistenti in terra mongola ne sono rimasti solo una decina, gli altri tutti distrutti e i monaci trucidati dalla repressione stalinista. Alla fine del dominio russo il paese è tornato a praticare le sue religioni; il buddismo lamaista e lo sciamanesimo. Al cielo, ora, liberamente salgono le vibrazioni delle campane tibetane e il suono profondo dei tamburi.

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A proposito di strumenti musicali, non potete non acquistare una “ciotola cantante” meglio conosciuta come campana tibetana. Sceglietela con cura, mi raccomando. Tradizione vuole che deve essere stata fatta con sette metalli, provatene il suono ponendola sul palmo della mano, tenendo gli occhi chiusi.

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Se è quella giusta saranno le vibrazioni sul braccio e l’emozione dentro di voi a dirvelo. Una volta scelta, suonatela all’altezza del cuore affinchè l’energia di questo si congiunga con l’energia vibrazionale dello strumento, sarete avvolti da intense sensazioni…. Clelia Nocchi

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