6^ tappa Trans African Tour

Etiopia – Djibouti
gennaio / febbraio 2016 – 22 giorni   2.430 Km.

E’ arrivato il 3 del mese di Tir 2009, no, no, scusate, ho sbagliato, ho calcolato la data con il calendario Giuliano.  Magari fosse così, saremo tutti più giovani di ben sette anni.  Gli etiopi, usano per le loro festività ancora questo antico datario.  Ricomincio allora!  E’ arrivata la mattina del 3 febbraio, siamo nel 2016  e a malincuore portiamo la nostra “lady di ferro” al porto di Djbuti; il container che la riporterà nel “bel paese” è pronto.

Un viaggio di tre settimane di navigazione e potrà rivedere il mare nostrum, la grande Aziza.  Si conclude, con questa tappa, nella bella Etiopia  il Trans African Tour.   Si sapeva già, dalla partenza che l’itinerario attraverso l’Egitto per raggiungere il Marocco sarebbe stato impossibile.  Le note vicende politiche che hanno devastato il nord Africa negli ultimi anni ci hanno costretto a modificare il primitivo itinerario percorso da Nino Cirani nel 1964.

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Cala il sipario su questa avventura, iniziata tre anni or sono che ha visto protagonisti, una verde Land 109 del 1979,  con il nome di Aziza 7, detta anche amorevolmente e simpaticamente “lady di ferro”, e un pugno di amici.
È stato un omaggio al grande Cirani, all’ Africa, oltre che a noi, e noi include anche la nostra tosta Land Rover. Oggi con tre anni e oltre 37.000 km africani in più sul contachilometri, non la metteremo certo a riposo, ha solo bisogno di un restyling per buttarsi poi nella prossima impresa. Perché una cosa è certa non finisce qui!

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Il mondo è grande e la bella Land come una grande signora cambierà d’abito, e sarà pronta per un nuovo “giro di valzer”. Chiudere questo memorabile viaggio in Etiopia non ha fatto che accrescere la consapevolezza di aver fatto la scelta giusta. L’Etiopia è un paese poverissimo, è vero, ma ricco, come pochi al mondo, per la varietà culturale e paesaggistica. In questa ultima “fatica” oltre a percorrere la famosa “rotta storica”, avevamo un obiettivo ben preciso, il Timkat, ovvero l’epifania copta. Le date erano state studiate in modo che il 19 gennaio fossimo lì dove dovevamo essere, a Gondar.
L’antica capitale, fondata dal Re Faselide nel 1635, viene definita anche la “Camelot d’Africa” per la sua Cittadella Reale. E’ proprio nella grande vasca adiacente al castello del re che avviene ogni anno il rito del “battesimo”. I festeggiamenti hanno inizio il giorno della Keterà, la vigilia. I fedeli, preceduti dai sacerdoti riccamente vestiti con sgargianti paramenti, portano in processione i Tabot, le tavole dei comandamenti o meglio le copie perché quelle autentiche i copti giurano che sono custodite nella mitica Arca dell’Alleanza. Lungi da noi avere dubbi su questa “verità”, ci limitiamo a guardare stupiti la lunga e colorata scia di persone che con canti, danze e preghiere accompagnate dal suono metallico dei sistri e quello cupo dei kebrero, portano per le vie del villaggio il simulacro sacro.

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L’Etiopia, culla della civiltà, è anche un paese profondamente religioso, di una fede assoluta che noi europei abbiamo dimenticato da tempo. Per 17 secoli il cristianesimo ha forgiato la storia di questo paese, facendone l’unica nazione in preminenza cristiana del continente africano.  Assistere ad una cerimonia liturgica qui è un’esperienza profonda, per credenti e non.  Ci siamo alzati nel cuore della notte e abbiamo partecipato rapiti ai riti, uniti ai pellegrini, che si avvolgono nello sciamma bianco, il loro abito tradizionale.  Le uniche luci, le tremule fiammelle delle candele che ognuno porta con sé, rendono l’atmosfera carica di misticismo.  L’acqua della grande piscina viene benedetta dai prelati prima del giungere dell’alba, da quel momento è diventata sacra al pari del grande fiume biblico, l’aspersione coinvolge anche a tutti i presenti. Al sorgere del sole decine di giovani uomini seminudi si gettano nelle acque in un “abluzione purificatrice”. E’ la rievocazione del grande evento cristiano, quando Gesù si immerse nelle acque del Giordano, per ricevere il sacramento del battesimo da San Giovanni.

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La sensazione è che per alcune ore siamo stati risucchiati in un altro mondo, un mondo ancestrale, che la luce del giorno a fatica piano piano dissolve. e ci restituisce la realtà.  Le strade tortuose, che percorrono questo territorio, raggiungono anche passi a 3000 mt, di altitudine, e permettono solo una bassa velocità, continui saliscendi, superbi scenari, piccoli villaggi, accompagnano il lento procedere, lasciandoci il tempo di catturare immagini di vita quotidiana. Facendo il confronto con altri paesi africani visitati ci sembra che qui la povertà sia anche superiore.   La siccità è una calamità ciclica da queste parti, e negli ultimi anni si è accanita catastroficamente, portando con sé, ogni volta morte e disperazione, basti pensare che quella del 1984 fece circa tre milioni di morti, e quella in atto non preannuncia nulla di meglio.
L’agricoltura, la principale occupazione, è in balia degli eventi atmosferici e per di più è allo stato medievale, nessun attrezzo meccanico che possa alleviare le fatiche di coltivazione o di trasporto dei prodotti ottenuti.  L’aratura ancora fatta con piccoli aratri in legno tirati da buoi, zappe e falci rudimentali, neppure una misera carriola o carretto per caricare, solo gli asinelli, per quanto possono, in parte assolvono a questo compito.

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Costeggiando i dorati campi coltivati a graminacee, s’ incontrano spesso contadini, uomini e donne, con voluminosi carichi sulle spalle, le schiene piegate dal peso, senza scarpe, coperti da miseri cenci, il viso segnato dallo sforzo e l’immancabile bolo di foglie di chat nella guancia, l’unico piccolo piacere.
I fasci color oro, che trasportano come animali da soma è il cereale più diffuso qui, è il Teff, il più piccolo chicco del mondo, in un pugno si riesce a tenere la quantità per seminare un appezzamento di terreno, basti pensare che per farne un grammo necessitano 2500 chicchi.  Dalle straordinarie proprietà nutrizionali è l’ingrediente per la preparazione dell’njera, una sorta di piadina spugnosa, che è alla base dell’alimentazione per più di 90.000.000 di persone. Non c’e luogo in Etiopia, turisticamente parlando, dove non si dovrebbe andare, non basta però certo un viaggio!

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Si riempie il bagaglio della conoscenza ad ogni passo, nei vecchi monasteri del lago Tana, dove fede e competenze artistiche si sposano negli affreschi e nelle pagine degli antichi e preziosi manoscritti, custoditi così gelosamente in polverose teche, nelle preghiere sussurrate dai sacerdoti , nei muri e nelle pietre della città santa di  Axum che  raccontano le gesta lontane del saggio  Re Salomone, e del  il favoloso regno della regina di Saba.
Nella piccola e misteriosa cappella di Nostra Signora di Sion, interdetta a tutti, che veglia il sonno dello scrigno di legno e oro,più ambito della cristianità,  l’arca dell’ alleanza  ma forse quello che più identifica questo paese nell’ intero pianeta  è sicuramente  Lalibela,  già solo il nome  ci costringe a una  dizione attenta per  non rovinarne la musicalità. Lalibela prende il nome da uno dei sovrani più famosi, è lui che fondò la città, a seguito della caduta dei Gerusalemme in mani non cristiane.   “Mi viene difficile raccontare ciò che ho visto, perché certamente non sarò creduto….”  Queste le parole scritte dal cappellano dell’ambasciata portoghese, un certo Frate Alvarez ,  il primo europeo a visitare  Lalibela.

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Giurava di dire la verità ma il suo racconto, pubblicato nel lontano 1540 non venne ritenuto attendibile. Parole adeguate quelle di Alvarez, perché anche se di tempo ne è passato sotto i ponti da quel dì, Lalibela rimane quel luogo magico di allora. Come raccontare un luogo magico senza destare incredulità?  Bisogna vederla Lalibela. Bisogna percorrere la lunga strada che dal bivio della strada per Addis Abeba, conduce a quella che è uno dei luoghi più affascinanti del mondo.  I 50 chilometri che separarono dalla mistica visione sembrano infiniti ma nello stesso tempo essenziali quasi necessari, un percorso iniziatico che servirà per bearsi poi di tanta bellezza.  Bisogna respirare la polvere, lasciarsi abbracciare dai paesaggi brulli avvolti nella nebbia attraversare le gole profonde, alzare lo sguardo sulle montagne circostanti, costeggiare i campi coltivati nelle valli, scambiare sguardi con gli abitanti che si incontrano e poi rimanere in silenzio al cospetto della perfezione costruttiva delle chiese ipogee.

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Dal tufo rosso scolpito, da mani sapienti le cui tecniche si sono perse nel tempo, si sono materializzati 12 imponenti edifici, sottratti alla terra. Per visitarle bisogna scendere nelle trincee che li separano, infilarsi nei cunicoli che le uniscono, calpestare i lordi tappeti, abituare gli occhi al buio e aprire le centenarie porte. Quando poi si risale a “riveder la luce” lo sguardo viene catturato dalla croce sul tetto della chiesa di San Giorgio. Un dono fra i doni.  La più bella, la più maestosa.  E’ proprio così che il re la fece per San Giorgio, patrono della nazione. Il re fu accusato dal santo, per non aver previsto, alla fine del progetto, una chiesa anche per lui. Ma Lalibela si fece perdonare e regalò un’opera superba diventata ora simbolo mondiale.  E se nessuno ti spiegasse che questo miracolo, miracolo non è, si potrebbe pensare, come una narra la leggenda, che è stata opera degli angeli, che in una sola notte crearono tutto.      Clelia Nocchi